Video digitale e manipolazione del codice. Innosense

Federica Matelli

 

2005

 

Dai suoi inizi la storia del video è costellata di artisti che si dedicano alla riflessione sul mezzo artistico nell’ansia di trovare nuovi linguaggi, alternativi a quelli dell’uso convenzionale dei nuovi mezzi di comunicazione. Buona parte del video sperimentale lavora direttamente la materia elettronica trattata come un elemento scultoreo o pittorico: l’esempio più riconosciuto è forse quello degli interventi di Name June Paik che, ponendo un magnete sullo schermo della televisione, causava distorsioni della materia elettronica, il segnale. Queste pratiche all’interno della videoarte degli inizi l’avvicinavano ai suoi contemporanei studi pittorici circa la forma e la materia, operati dagli artisti che aderivano alla corrente pittorica dell’Astrattismo (che in seguito si suddivise in differenti correnti fra le quali il Formalismo astratto e la pittura segnica e materica).

La necessità di intervenire direttamente sulla materia dell’immagine elettronica, sul “corpo” elettronico del video (dal greco video - vedere, immagine), stimolò gli artisti all’invenzione di nuovi apparati per la manipolazione delle immagini: mi riferisco al brevetto del primo Mixer Video, inventato da Nam June Paik insieme a Suna Abe per poter intervenire direttamente sul flusso delle immagini, sul flusso elettronico. Ma questi erano ancora i problemi del video analogico.

Dopo la nascita del telefono, del cinema, della radio e della televisione una grande e recente rivoluzione nel campo della comunicazione è stata apportata dall’invenzione del computer e dall’avvento del digitale. Oggi, quando si parla di video o d’immagine elettronica occorre fare una distinzione fra “video analogico” e “video digitale”. Decisamente, negli ultimi tempi, il video digitale sta assorbendo completamente l’analogico, e tutti i tipi d’immagine preesistenti (pittorica, cinematografica, video analogica) vengono via via ricodificati nel linguaggio digitale, per la sua comodità, per questioni di spazio (i supporti digitali sono molto più agevoli), e per una questione economica (il basso costo delle nuove macchine universali). Il video analogico si basava tecnicamente sulla conversione d’energia analogica in energia elettrica: per esempio, ad un punto luminoso della realtà corrispondeva un punto luminoso sullo schermo. Fra queste due grandezze, o entità fisiche, c’era ancora un certo rapporto di corrispondenza o calco. Nel digitale invece abbiamo la trasformazione di un segnale luminoso in un calcolo, in un codice numerico universale. Come nota Sandra Lischi nel suo ultimo libro dedicato al linguaggio del video (Lischi, Sandra, 2005, p.92) sembra che l’immagine digitale si svincoli dell’analogia con la realtà cioè, in termini scientifici, dalle grandezze fisiche, quali la luce o il suono, giacché l’immagine può essere prodotta per intero numericamente. L’immagine si astrae totalmente. Per questo il cambiamento comportato dal digitale nello studio e nella produzione d’immagini, è stato per lo più interpretato dai critici e dai teorici nei termini di una smaterializzazione, una liberazione totale dalla materia. La nascita del video digitale e dell’immagine di sintesi, che si distingue dall’immagine in movimento analogica, sembra quindi riprodurre oggi quella separazione che si ebbe in pittura negli anni cinquanta, fra Concretismo e Astrattismo, il primo volto alla creazione di forme astratte e geometriche senza nessun addentellamento con la realtà esterna, mentre il secondo, attraverso diverse tendenze come l’Action peinting, l’Informale, la pittura segnica e materica, manteneva ancora qualche contatto con la realtà materiale.

Il computer, definito “Metamedium”, assorbe tutti i medium precedenti tramite il codice numerico, e “un mosaico di pixel ordinati si sostituisce alla traccia luminosa della realtà” (Lischi, Sandra, 2005, p.95). Il software, cioè lo strumento per mezzo del quale operare col computer, non è altro che una catena di algoritmi, cioè di istruzioni di operazioni numeriche da impartire al cervello elettronico.

Parlando del video digitale, vorrei ricordare come oggi, grazie agli innumerevoli softwares immessi sul mercato, sia facile imparare a montare dei video, cosa un tempo molto complicata, e a manipolare l’immagine per mezzo degli effetti di cui sono forniti. In realtà io credo che questi programmi forniscano degli effetti e dei montaggi da manuale che invece di stimolare la fantasia e la creatività degli artisti, la limitino ad un linguaggio ormai consolidato e convenzionale. Molti artisti che si dedicano al digitale si sentono già ingabbiati dentro i linguaggi comprati al supermercato e sentono la necessità di liberarsi dai programmi creati dall’industria. Così come i vedeoartisti della prima generazione, si esprimevano creativamente agendo direttamente sul segnale, cercando personali soluzioni tecniche e creando i propri “mixer”, allo stesso modo l’unica via alla creatività per gli artisti del digitale è la costruzione di propri hardwares e softwares, e la manipolazione diretta del codice. Agire sul codice, cioè creare il proprio algoritmo, (in parole povere programmare il computer) è l’unica nuova e autentica forma di manipolazione dell’immagine digitale, che le permette di recuperare “un contatto” con la materia e che così l’avvicina a buona parte dell’arte sperimentale del novecento: l’astrattismo materico in pittura, il cinema sperimentale, la fotografia, il video analogico. Per fare un esempio esplicativo, la differenza fra usare un programma per il montaggio e programmarne uno, è la stessa che nel disegno manuale intercorre fra lo studio e l’apprendimento della tecnica, e della struttura, e la sperimentazione con i materiali e l’ibridazione delle differenti tecniche.  E’ a questo punto che l’arte digitale può ripercorrere il codice, il flusso di 0 e di 1, fino a toccare nuovamente la materia prima dell’immagine, la luce e il colore. Agendo sul codice e manipolando l’algoritmo, l’artista può agire sulla “ghiandola pineale” dell’immagine elettronica digitale, sullo spazio liminare che separa e unisce l’hardware e il software, e causare “cambiamenti materici” sul risultato finale, come se usasse le mani. 

 

Esteban de la Monja Casar. Inosense

 

“Esteban de la Monja Casar è nato a Zapopan, Mexico, il 15.08.1979. Nelle sue opere frequentemente decostruisce un elemento simbolico personale (specialmente in quei lavori che alludono alle emozioni primarie e cromatiche ) o collettivo  (in quelli che si basano sulla ricerca intorno alla dimensionalità, sul tempo o sul mezzo in se) e li ricostruisce tramite la tecnologia utilizzando un linguaggio proprio. In tal caso l’opera si conforma e confrontata con se stessa, col processo (pianificato minuziosamente durante lunghi tempi di produzione) e il risultato finale sempre somma a se stesso una marcata e importante carica estetica. Nelle sue opere nulla è casuale o circostanziale, ogni opera individuale fa parte di una logica collettiva e complementare, e ogni elemento si relaziona con gli altri come elemento frattale di una decomposizione – composizione, “informaticamente” ossessiva, di elementi e significati che emergono dal suo costante lavoro con i mezzi digitali, nella ricerca di astrazioni ibride che propongono nuove letture della creazione digitale” (dichiarazioni tratte dal sito dell’artista. www.delamonja.com).

Dopo una prima fase di sperimentazione con l’immagine digitale, che egli rende caleidoscopica, nella quale Esteban si concentra sulla riflessione su temi “classici” dell’arte dell’immagine in movimento – come la struttura dell’immagine (attraverso la sua destrutturazione), il tempo e lo spazio (attraverso la loro distorsione) - inizia una fase di sperimentazione sul corpo elettronico, sul mezzo stesso, e una fase di manipolazione del Codice Digitale. Questi ultimi due punti coincidono con la produzione dell’installazione di Media Art Innosense. In questa seconda fase, Esteban mette in discussione lo statuto attuale dell’arte digitale, s’interroga sul suo valore e sulle differenze che la allontanano dai mezzi analogici, e tenta affannosamente - in Innosense in particolare - un recupero del contatto con la materia elettronica e della relazione del digitale con i materiali analogici, attraverso la programmazione di algoritmi che gli permettono di intervenire sulla materia luminosa e cromatica delle immagini, provocando variazioni di suono, di luce e di colore, attraverso la frammentazione, l’“impasto”, la decostruzione e la ristrutturazione dei loro valori.

     

In particolare in Innosenseinterviene con un algoritmo (simile a quello del deframmentatore di Windows) che deframmenta le informazioni di luce, di colore e di suono di un film di Mike Figgis – The Loss of Sexual Innocence, nome dalla cui alterazione ortografica deriva il titolo dell’opera, Innosense – favorendo multiple riflessioni: il fatto che utilizzi immagini cinematografiche spinge ad una riflessione sulla corsa attuale alla digitalizzazione dell’immagine filmica e una nuova lettura della struttura filmica digitale; il fatto che manipoli colori, suoni e luce lo avvicina a pratiche astratte di ibridazione di tanta arte sperimentale contemporanea e del recente passato; e infine, il fatto che l’opera si concluda con la produzione di una stampa dello spettro delle variazioni dei valori "luminici" delle immagini, chiude il cerchio, suggerendo un continuum fra fotografia cinematografica, immagine digitale, informatica e grafica.


 www.delamonja.com/site/reinterpretaciones/index.html

 

 

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