Jean
Luc Nancy y Abbas Kiarostami.
Ipertesti Fisici ed Immagini Evidenti
Federica Matelli
2007
Il
pensiero di J. L. Nancy rimanda a quella “tradizione
contemporanea” che da Heidegger e attraverso Derrida, Deleuze
o Lacan, inizia la critica e la decostruzione del paradigma filoso-fico
vigente, e con esso del paradigma visivo consolidato. Col
decostruzionismo, il pensiero occidentale ha conosciuto, ancora una
volta dopo Kant, il proprio limite, e con quello la
ne-cessità della ricostruzione. In questo senso potrebbe
essere letta la filosofia di Nancy, come filosofia
“ricostruttivista”: in altre parole come quel
pensiero che, dopo l’esperienza
“negati-va” del novecento, torna alla
riedificazione di un senso e alla ricerca di qualcosa che possa
orientare nuovamente. Ricostruzione significa trasformazione del ruolo
stesso del pensiero e del suo rapporto con l’essere: dalla
critica nasce una diversa ontologia che prevede un nuo-vo rapporto fra
essere, essenza e conoscenza, in altre parole la scoperta
dell’esistenza come essenza e del rapporto come fondamentale
categoria ontologica ed esistenziale.
Vedere
da una prospettiva differente il rapporto fra essere, essenza ed
esistenza, implica una nuova visione della relazione (o non relazione)
fra essere e corpo, e quindi del corpo umano, sia come ente che
costituisce il mondo assieme agli altri enti, sia come carne, vita,
esistenza umana. Questa diversa visione è e-scritta da
Jean Luc Nancy in testo, pubblicato in Italia per la prima volta nel
1995,
col titolo Corpus, che
condensa in forma ipertestuale tutta la sua
filoso-fia del corpo. Fin dalle prime pagine è chiaro che Corpus si ricollega al
discorso di Derrida sulla Differenza, struttura
primaria del pensiero legata alla metafisica. La differenza fra il
pen-siero ed il corpo, fra la forma e il contenuto, è
originaria, impone l’impossibilità di qualsiasi
empatia fra le due parti e la necessità di mediazione,
attraverso la quale avviene ogni comu-nicazione. Come ci ha insegnato
Heidegger, noi conosciamo l’essere solo in quanto comuni-cato
attraverso il linguaggio e la relazione diventa una nuova e
fondamentale categoria onto-logica. Ciò significa che
l’essere non può essere mai conosciuto, ma solo
descritto nel lin-guaggio. Con tali presupposti Nancy scrive Corpus
e riconsidera la relazione fra corpo, esistenza umana e pensiero, dal
punto di vista del corpo, attraverso i tre momenti di una ri-cognizione
linguistica, una ricognizione filosofica e una ricognizione del
concetto di mondo .
Corpus.
Manuale d’ontologia corporea
Nel
Fedro, Platone, afferma che
un discorso sen-sato deve avere capo e coda, vale a dire deve ispirarsi
alla forma di un corpo organico, cor-po-organismo, che si orga-nizza in
funzione di un principio supremo estrinseco, idea o con-cetto, logos,
anima, pensiero. Il concetto del corpo di Platone è ancora
il concetto di corpo di qualsiasi metafisica, “filosofia
dell’assenza”, che cerca
l’autenticità di questo mondo in un altrove
ignoto. Corpus, per contro,
espone un concetto di corpo lontano da
quello di casa dell’anima, metafora della costruzione
organica del testo e del pensiero corretto, perché il suo
autore non vuole scrivere del o sul corpo, ma vuole e-scrivere il
corpo, rendergli giustizia attraverso la scrittura ed esporre la sua
essenza: quella d’essere luogo di esistenza del quale il
pensiero fa parte. E - scrivere il corpo significa toccarlo col
pensiero e rispettarlo, per fare in modo che s’incida, si
scolpisca e parli nel testo. Siamo di fronte ad un vero e proprio
e-sperimento letterario, alla promessa di simultaneità di
forma e contenuto, che rende il di-scorso del corpo una relazione
paradossale. Lo scopo é evitare di costringerlo in una
defini-zione univoca e assoluta: “C’è
insomma quasi una promessa di tacere. E non tanto di tacere
“a proposito” del corpo, quanto di tacere il corpo,
sottraendolo materialmente alle impronte significanti, qui,
direttamente, nella pagina scritta e letta” . E’ un
tentativo di comunicare sen-za significare, di plasmare, scolpire il
testo seguendo le forme della materia, della carne, con la
consapevolezza che si tratta di un’impresa fallita in
partenza perché noi conosciamo so-lamente corpi significanti
e mai corpi significato.
L’e-scrizione,
la scrittura appropriata al corpo, si posiziona sul limite che lo
separa dal pen-siero, dal quale il linguaggio tocca
l’indicibile. Più che nella scrittura, sul suo
limite, in punta, all’estremità della scrittura.
“La scrittura ha il suo luogo sul limite (…). Alla
scrittura le accade solo di toccare il corpo con l’incorporeo
del senso e di rendere quindi, l’incorporeo toccante e il
senso di un tocco (…). La scrittura giunge ai corpi secondo
il limite assoluto che separa il senso dell’una dalla pelle e
dai nervi degli altri. Niente passa, ed è proprio la che
sì tocca” . L’e-scrizione è
lo spazio al limite in cui il fisico tocca il metafisico e diventa
estetica. Il limite è quella zona neutra nella quale il
conosciuto sfocia nell’altro da sé e nella quale,
quindi, si apre sempre un ventaglio di prospettive e la
possibilità di un nuovo senso . L’e-scrizione del
corpo si pone sul limite perché questo è il solo
luogo dal quale il linguaggio tocca l’indescrivibile, da dove
il pensiero può, fuggevolmente, toccare il corpo,
lasciandolo essere quello che è, al-terità, senza
forzarlo in un concetto chiaro e distinto. Il limite diventa il solo
senso che può avere il pensiero contemporaneo, che si fa
portatore di un senso finito. L’e-scrizione condu-ce ad un
discorso a-cefalo e a-fallico: “Platone vuole che un discorso
abbia il corpo ben formato di un grande animale, con testa ventre e
coda. Per noi il discorso senza capo né co-da è
non-sense; sempre ci rivolgiamo al senso e al di là di esso
siamo costretti a cedere. Il corpo sta là dove si cede al di
là del senso, e questo non è “non
senso” in quanto assurdo, ma indica che si tratta di un senso
che nessuna figura del senso conosciuta può avvicinare.
Senso che ha senso la dove per il senso è il
limite”. Il discorso corpo non ha né capo
né co-da, poiché niente fa da supporto a questa
materia, (…) ha bisogno di altre categorie di forza e di
pensiero (…) ” .
L’idea
di corpo che viene al mondo è quella di luogo
d’apertura dell’essere, luogo
d’esistenza. Il luogo è uno spazio aperto,
indefinito, a-cefalo e a-fallico, a-strutturale, che ri-ceve la propria
struttura dal pensiero che di volta in volta lo pensa . La
caratteristica di un corpo è quella di essere
un’esteriorità non pensabile né
pensante, un’alterità che pesa fuori del pensiero
e che lo costringe a calibrare attorno a sé il proprio
movimento, perché al di là del suo limite non
c’è nulla. Come la pelle che ci riveste, soglia
sulla quale avviene la nostra esposizione all’esterno, sulla
quale s’innestano e s’incrociano le differenti
estesie, attraverso le quali ci si tocca e si entra in contatto, il
corpo è l’essere qui e ora, è
l’esposizione dell’esistenza, superficie . Ogni suo
singolo punto ha in se stesso il valore di luogo
d’esposizione dell’essere, senza alcun telos
estrinseco. Il corpo è l’esposizione finita
dell’esistenza che in esso si rende evidenza. Per Cartesio la
verità del pensiero è l’unica chia-ra e
distinta. Per Nancy l’unica evidenza è il qui e
ora del corpo, in ognuno dei luoghi della sua materia, senza alcuna
scala di grado.
La
conoscenza del e tramite il corpo non è mai totale ed
assoluta, ma modale e frammenta-ta, e la forma del discorso che meglio
porta il suo sapere è quella di un ipertesto: un corpus,
appunto, una cartografia, un elenco delle zone del corpo che offre un
insieme d’approcci equi, mostrando tutto ciò che
il corpo può essere alla nostra esplorazione senza programma
né preconcetto. Un ipertesto-corpus permette una lettura non
sequenziale, nella quale non c’è la certezza di un
principio e di una fine. La sceneggiatura di un ipertesto è
composta da una serie di piccole “sceneggiature”
che si intrecciano l’una con l’altra, impedendo una
nar-razione sequenziale e un tempo cronologico. Il tempo di un
ipertesto è affidato al lettore così come il
compito di “condurre” la narrazione. Ciò
che importa in Corpus e in generale in un ipertesto, non è
il tutto organico, ma le parti sciolte e le loro possibili e molteplici
relazioni. Frammentazione,
sospensione e interruzione diventano
importanti caratteristiche della sua lettura, perché ogni
singola parte ha lo stesso valore: è un luogo di venuta in
presenza del corpo e dell’essere. Il processo, il percorso,
la relazione, più che il risultato finale, sono in primo
piano. La struttura ipertestuale di Corpus,
nasce con la consapevolezza
che non esiste una verità unica, infinita ed eterna, ma
molteplici verità ed evidenze contingenti, in ogni qui e ad
ogni ora, e quindi dalla volontà di regalare al lettore la
giusta libertà di scelta di un perso-nale percorso verso
tale evidenza.
Evidenza
e sguardo
La
filosofia del corpo di Nancy testimonia e spiega
perfettamente la perdita della trascendenza del pensiero contemporaneo,
da lui definito un pensiero finito , che trascina nel proprio vortice e
stravolge la filosofia dell’immagine. Il rapporto
fra corpo e pensiero è il paradigma del rapporto fra
immagine come evidenza e movimento del cinema come sguardo, che Nancy
descrive nel suo libro sul cinema di Abbas Kiarostami, titolato L’evidenza del film. Abbas
Kiarostami. Nel linguaggio della
visione questa differenza è la struttura che sostiene la sua
teoria dell’immagine e descrive un nuovo cinema. Da tale
diffe-renza Nancy ricava dieci assiomi, punti chiave della sua
interpretazione del cinema contem-poraneo: Sguardo, reale, pregnanza,
arte soprannumeraria, cosa che rotola, sguar-do/immagine, rispetto,
evidenza, film, trasporto.
Ipotesi
della nuova teoria del cinema è che la rappresentazione si
è esaurita. Siamo usciti dall’epoca della
rappresentazione e questo deve essere presente a chiunque voglia fare
del cinema un’arte: “ecco un cinema che enuncia,
con potenza e ritegno, con grazia e severità, una
necessità di sguardo e di un utilizzo dello sguardo. Non una
nuova problematica della rappresentazione, che verrebbe ad
aggiungersi a quelle che hanno scandito, a giusto titolo, la
storia del cinema, ma piuttosto un’assiomatica dello sguardo:
l’evidenza e la certezza di uno sguardo cinematografico come
riguardo per il mondo e per la sua verità. Questo cinema
(…) afferma che questa assiomatica sorge qui e ora, in
questa svolta di secolo, aprendo una nuova via al già assai
vecchio, secolare cinema.(…) Con l’uso e col
tempo, avete percorso tutte le sue possibilità di
rappresentazione. Ma così a poco a poco avete sviluppato una
possibilità di sguardo che non è più
esattamente uno sguardo sulla rappresentazione né uno
sguardo rappresentativo”.
Il
significato del nuovo sguardo è penetrazione e apertura, con
chiaro riferimento alla sala ci-nematografica, scatola per guardare o
dispositivo dello sguardo, nella quale, inchiodati alla poltrona,
penetriamo e ispezioniamo i mondi proposti al di la dello schermo. Ed
anche inne-sto: dello sguardo dello spettatore su quello del regista,
che delimita col proprio movimento una porzione dell’evidenza
del mondo nell’immagine.
In
questa prospettiva ognuna delle immagini proiettate ventiquattro volte
al secondo, contie-ne a priori uno sguardo che esce dal suo interno .
Questo argomento - dell’immagine che contiene lo sguardo
dell’osservatore - era stato affrontato in precedenza da
Nancy in un altro testo dedicato alla pittura, Il ritratto e il suo
sguardo, nel quale afferma che qualsiasi imma-gine contiene uno
sguardo (sguardo e non visione), ed è questo ciò
che ci tocca delle imma-gini, perché “guardare
significa anzitutto badare, warden o warten, sorvegliare, custodire e
fare attenzione. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e mi
sorveglio: sono in rappor-to con il mondo e non con l’oggetto
(…). Nello sguardo sono messo in gioco. Non posso guardare
senza che ciò mi riguardi” . Lo sguardo stacca
l’immagine dal fondo, ed il fondo è presente
nell’immagine in piena superficie. Per questo non
è legittimo considerare l’immagine una semplice
imitazione della realtà, perché nello sguardo
dipinto, registrato o fo-tografato, l’immagine stessa diventa
sguardo, apertura verso/su di un mondo. Ogni immagi-ne è una
finestra che offre un’entrata al mondo: “Non si
tratta della fascinazione dell’immagine: si tratta
dell’immagine in quanto apre sul reale e in quanto essa
soltanto apre sul reale. La realtà dell’immagine
è l’accesso al reale stesso: a quello che ha la
consistenza e la resistenza, per esempio della morte o, per esempio,
della vita.(…) non si tratta della visio-ne ma unicamente
dello sguardo (…) portare uno sguardo
all’intensità di un’esattezza e di
un’evidenza . In verità sarebbe più
corretto dire, invece di “l’immagine è
sguardo su”, “l’immagine è
sguardo tout court”, aperto, non “su”,
non “circa”, ma dall’evidenza del mon-do,
“niente di meno che la presentazione di un mondo che sorge
per la sua stessa visione, per la sua stessa evidenza. ”
Ogni
immagine cinematografica porta quindi il proprio sguardo (lo sguardo
del regista) che è colto e seguito dallo sguardo dello
spettatore, come in un innesto, e al quale lo sguardo del-lo spettatore
è invitato a partecipare. In questo modo il cinema diventa
un’altra forma di pre-sentazione del reale, meritandosi il
titolo di settima arte, arte soprannumeraria e pregnanza: attraverso la
molteplicità, della sua immagine, della musica, della
parola, offre una nuova configurazione dell’esperienza, nuova
pregnanza, “forma, forza che precede e fa maturare una messa
al mondo, la spinta di uno schema dell’esperienza mentre
assume i suoi contorni”.
Il
cinema è interpretato come spostamento del reale
più che come rappresentazione, come mobilitazione dello
sguardo attraverso quella scatola degli sguardi che è la
sala cinemato-grafica, nella quale, si opera l’apertura
dell’immobile, vale a dire l’entrata
nell’immagine. Nes-suna semiologia del cinema ma
“cinema intensificato, spinto verso un’essenza che
lo stacca dalla rappresentazione per volgerlo alla
presenza”.
L’assiomatica
dello sguardo porta con se il nuovo concetto d’immagine come
evidenza. Partendo dalla definizione di mondo come totalità
indefinita di senso, l’immagine che non ne vuol essere pura
decorazione diviene quel “tratto” che ne separa ed
estrae una parte. In Tre saggi
sull’immagine Nancy
chiama l’immagine il distinto, perché
l’immagine è il medesimo tratto, la medesima
distinzione che la separa e così la fa comunicare dal ciglio
stesso del suo limite, comunicando la separazione stessa. Questo
perché il tratto dell’immagine è il suo
tracciato, la sua forma, la sua forza intima:
“l’intimo vi si esprime: ma questa espressione va
intesa nel senso più letterale. Non è la
traduzione di uno stato d’animo, ma è
l’anima stessa che preme e poggia sull’immagine, o
piuttosto l’immagine è questa pressione,
quest’animazione e quest’emozione. Non ne fornisce
il significato: in questo senso essa non ha alcun oggetto (o alcun
“soggetto”, come si dice di un quadro) ed
è priva d’intenzione. L’immagine non
è una rappresentazione: è un’impronta
dell’intimo e della sua passione (della sua mozione, della
sua agitazione, della sua tensione, della sua passività),
e-scrizione della realtà. Non è
un’impronta nel senso di un tipo o di uno schema definito,
fissato. E’ piuttosto il movimento dell’impronta,
il colpo che marca la superficie, il rilievo o l’incavo di
questa, della sua sostanza (tela, foglio, rame, pasta, argilla,
pigmento, pellicola…), la sua impregnazione o la sua
infusione, l’inumazione o lo svuotamento in essa
dell’impulso” . Svuotamento, appun-to.
L’immagine che non è rappresentazione è
“vuota”, non è più un questo
rappresentativo di un quello, un segno che indica un significato. Ma,
come risuona nel nome francese che le attribuisce Nancy,
è evidenza, che si esaurisce completamente nella propria
superficie e nel limite che la separa come contesto/ambiente staccato e
ritagliato da un fondo , senza un dietro o un dentro, pura
esteriorità, come la pelle.
“L’immagine
è il dire non linguistico o il mostrare la cosa nella sua
medesimezza. Questa medesimezza, però, è non
soltanto non-detta o detta altrimenti: è una medesimezza
altra da quella del linguaggio e del concetto, una medesimezza che non
deriva né dall’identificazione né dalla
significazione, ma che si sostiene da se, nell’immagine e in
quanto immagine”. L’immagine della cosa o la cosa
in immagine è evidenza perché distinta dalla sua
semplice presenza nell’omogeneità del mondo: il
suo valore ontologico è il suo davanti, superficie,
e-sposizione, ex-pressione (pressione verso l’esterno), pelle
. E come non c’è nulla nel pensie-ro che non sia
nei sensi, così non c’è niente
nell’idea che non sia nell’immagine.
L’immagine è essa stessa l’idea e lo
sguardo è il suo movimento, cioè il suo pensiero.
L’evidenza dell’immagine è la sua
verità. “L’evidenza nel suo senso forte
non è ciò che cade sotto i sen-si, ma
ciò che colpisce e il cui colpo apre una
possibilità per il senso. E’ una verità
non in quanto corrispondenza con un criterio dato, ma in quanto
coglimento” . E così lo sguardo del cinema che
aderisce a questo pensiero, si rivela riguardo per l’evidenza
del mondo, ri-spetto e pensiero del reale, oltre che rispetto di un
possibile altro sguardo sullo stesso mon-do, quello dello spettatore:
“L’immagine apre l’uno
sull’altro due sguardi: il suo e quello che la guarda. Questa
apertura crea spazio, distanza necessaria e rispettosa, nello stesso
tempo in cui crea rapporto. Il film non è una
rappresentazione, è un’attrazione dello sguardo,
una trazione lungo il suo movimento, nello stesso tempo in cui
definisce una parte dello spazio (…) come parte dello
sguardo, della sua cornice e della sua portata, del suo
aggiustamen-to”.
Infine
Nancy, giocando ancora una volta con le parole, riporta la pelle delle
immagini alla ma-terialità dinamica de loro supporto, la
luce e la pellicola che la rileva: “dall’obiettivo
allo schermo, dalla cinepresa alla proiezione, c’è
una continuità di questa materialità luminosa,
sospensiva, diafana e dissipativa che mi piacerebbe chiamare eterea
(…) L’elemento etereo del cinema è
subito quadridimensionale: allo spazio in seno al quale si gioca
l’equilibrio della luce appartiene anche il tempo di questo
equilibrio. La durata è inerente alla durata della
proiezione, anche se è un’immagine mobile ad
essere proiettata e quale che sia la durata della proiezione: a
differenza di una fotografia, un’inquadratura immobile non
è deposta sulla fissità di un sostrato. Essa
vibra durante la sua proiezione” . Sulla scia del fascio di
luce siamo trasportati dentro del film. Lo schermo del cinema
è un’apertura praticata nel mondo sul mondo
stesso, nel quale siamo trasportati dalla flebile materia del fascio di
luce che tra-scina le immagini sulla parete e alla costruzione del cui
senso - non narrativo, né teleologico, né
ripetitivo - partecipano gli stessi spettatori. Il cinema
contemporaneo, del quale il film di Kiarostami è un esempio,
non descrive e non racconta, perché non vuole costringere le
im-magini ad una “funzionalità” che ne
cambierebbe il valore. Lo scorrere delle sue immagini non rispecchia il
discorso organico del racconto dal felice epilogo finale,
bensì è incompleto, faticoso, frammentato, a zig
zag, come le strade che compaiono nei film di Kiarostami, cita-zioni di
questa nuova maniera di raccontare. E’ un cinema che non
spiega, che è sempre sul-la strada e che, proprio
per questo, invita i propri spettatori ad esplorare il territorio
dell’immagine, alla ricerca di una direzione e di un senso.
Come i protagonisti di E la vita continua, che durante tutto il film
non fanno altro che guardare e cercare in un panorama di distruzione ,
l’immagine scopre l’evidenza di ciò che
è più di una verità:
l’esistenza che va avanti nel suo movimento e continua -
discontinuando, come il cinema, nonostante tutto.
Il
cinema e le altre arti soprannumerarie
Afferma
Kiarostami
nell’intervista finale in ap-pendice al libro:
“Finora non ho potuto trovare una definizione di cinema. Se
si ritiene che il cinema abbia il dovere di raccontare delle storie, mi
sembra che il romanzo lo faccia assai meglio. I pezzi radiofonici, gli
sceneggiati televisivi assolvono anch’essi a questo compito.
Penso ad un altro cinema che mi rende più esigente e che
viene definito come la settima ar-te. In questo cinema
c’è della musica, della storia, della
fantasticheria, della poesia. Ma pur includendo tutto questo, penso che
resti un’arte minore. Io mi domando, per esempio,
per-ché la lettura di una poesia ecciti la nostra
immaginazione e ci inviti a partecipare al suo compimento. Le poesie
sono probabilmente create per raggiungere un’unità
malgrado la loro incompiutezza. Quando vi si mescola
l’immaginazione, la poesia diventa mia. La poesia non
racconta mai una storia, essa da un’insieme di immagini
(…). Ora, l’incomprensione fa parte
dell’essenza della poesia. La si accetta come tale. Lo stesso
per la musica. Il cinema è diffe-rente. Affrontiamo una
poesia con i sentimenti e il cinema con l’intelletto, con il
pensiero (…). Io non sopporto il cinema narrativo. Il solo
mezzo per progettare un nuovo cinema è consi-derare di
più il ruolo dello spettatore. Bisogna progettare un cinema
incompiuto e incompleto affinché lo spettatore possa
intervenire e riempire i vuoti, le mancanze. Invece di fare un film con
una struttura solida e impeccabile, bisogna indebolirla –
Forse la soluzione è quella di incitare appunto lo
spettatore ad avere una presenza attiva e costruttiva. Credo di
più ad un’arte che cerca di creare la differenza,
la divergenza tra le persone piuttosto che la con-vergenza dove tutti
sarebbero d’accordo. Ciascuno costruisce il suo proprio film,
che aderi-sce al mio film, lo difende o vi si oppone. Gli spettatori
aggiungono delle cose per poter di-fendere il loro punto di vista e
questo atto fa parte dell’evidenza del film. E’ con
una certa debolezza, con una mancanza che bisogna andare alla guerra
contro le potenze”.
A
- narratività, incomprensione e partecipazione, sono tre
concetti indissolubilmente legati fra loro e alla definizione di cinema
come evidenza e sguardo. L’evidenza del film risulta dal non
spiegare e dal non rappresentare, e per contro proporre una cruda
esteriorità accompagnata uno sguardo su di sé.
È tale sguardo che trasporta lo spettatore
all’interno del film, col com-pito di trarne
un’interpretazione personale, di contribuire al senso. Questo
si ottiene dando al film una struttura minima ed inorganica, che
avvicina il cinema ad altre forme d’arte contem-poranea, in
particolare alle arti multimediali: video , video installazione, e
installazione inte-rattiva.
Il
concetto di spazio della visione e d’immagine/sguardo come
apertura sul mondo, e la defi-nizione di cinema come arte
soprannumeraria (sinonimo, a volte, di multimediale), avvicina
l’interpretazione del cinema di Nancy all’estetica
delle videoinstallazioni, attraverso le quali gli artisti ci propongono
il proprio immaginario come un mondo sul quale affacciarsi o in cui
entrare, e a volte interagire. L’idea sorgente o immagine
mentale originaria, prende la forma di uno spazio quadridimensionale
nel quale entrare. L’opera multimediale che aspira alla
to-talità, includendo tutte le estesie nella propria
formazione, offre al fruitore la partecipazione all’opera -
mondo, eliminando la distanza che li separa.
Le
video installazioni si costruiscono come ipertesti quadridimensionali,
ambienti “elastici” che, vista
l’impossibilità di dominarli con un unico sguardo,
donano lo stupore di mondi - corpi non ancora conosciuti.
L’interattività è un elemento estetico
ormai pluri - consolidato di questo genere artistico. La comunicazione
al suo interno si costruisce come “work in
progress”, cioè si struttura volta per volta
nell’atto dell’esplorazione e
dell’organizzazione del senso: si sviluppa come processo.
L’opera d’arte diviene processo, non si auto -
determina a priori e si concentra sul hic et nunc, sullo sviluppo delle
relazioni che la costituiscono. Di conseguenza l’opera si
ritrae dall’arte ed è quindi, per usare un termine
Nanciniano, inopero-sa.
Dinamicità,
processualità, movimento, che determinano
l’estetica delle installazioni, soprattutto interattive, sono
latenti nell’estetica cinematografica e in realtà,
come sottolinea Nancy, costituiscono le caratteristiche principali del
suo supporto, il movimento della luce in conti-nuo equilibrio con se
stessa. Infine, una parte del cinema contemporaneo, del quale Abbas
Kiarostami è uno dei rappresentanti, abbandona la narrazione
lineare per costruire una strut-tura più debole e vaga, che
permetta di includere lo spettatore nel film e renderlo partecipe della
costruzione del senso, svelando il valore intimo
dell’immagine come evidenza, superfi-cie, esposizione del
mondo e dello sguardo come trasporto all’interno del film.
Allo stesso tempo gli artisti che costruiscono installazioni
interattive ci trascinano nei loro mondi, sugge-rendo
un’azione che segue lo sguardo (o viceversa) o mettono in
movimento le relazioni spa-ziali quadridimensionali. Nelle
installazioni l’immagine (mentale – idea) ed il
pensiero si fanno ambiente, continuando ciò che
iniziò in un cinema di Parigi il 28 dicembre del 1895,
quando il movimento turbò, per la prima volta su uno
schermo, la quiete dell’immagine, permettendo alle dimensioni
altre di questo mondo di penetrare il nostro occhio.
Bibliografia
Jean
Luc Nancy, Abbas Kiarostami. L’evidenza del film. Donzelli
Editare, Roma, 2004
Jean
Luc Nancy, Tre saggi sull’immagine. Edizioni Cronopio,
Napoli, 2002
Jean
Luc Nancy, All’ascolto. Raffaello Cortina Editore, Milano,
2004
Jean
Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo. Raffaello Cortina Editore,
Milano, 2002
Jean
Luc Nancy, Federico Ferrari, La pelle delle immagini, Bollati
Boringhieri, Torino, 2003
Federica
Matelli, La filosofia del corpo di Jean Luc Nancy e
l’estetica tecnologica. Tesi di Laurea
Silvana
Vassallo e Andreina di Brino (a cura di), Arte tra azione e
contemplazione. L’interattività nelle ricerche
artistiche. Edizioni ETS, Pisa, 2003
Pierre
Sorlin, Estetiche dell’audiovisivo, La Nuova Italia Editrice,
Scandicci (Firenze), 1997